Oggetti che raccontano storie - Il museo della civiltà solandra

Ci sono luoghi in cui il tempo non scorre, ma si posa.

Entri in silenzio, e senti che ogni oggetto ha qualcosa da dire.

Una brocca sbeccata, una zappa consumata, un telaio che conserva ancora l’eco dei gesti di chi lo usava.

Nei musei etnografici, le cose non sono semplicemente esposte: abitano ancora il loro mondo.

Ogni volta che visito uno di questi musei ho la sensazione di entrare in una casa in cui i padroni di un tempo sono appena usciti.

Gli attrezzi sono al loro posto, i vestiti riposano sui manichini come se aspettassero di essere indossati.

Anche l’aria sembra più densa, come se trattenesse il respiro per non disturbare la memoria.

È in questi spazi che la creatività umana mostra il suo volto più autentico: non quella spettacolare delle grandi opere, ma quella discreta e quotidiana, fatta di necessità e ingegno.

Un mestolo di legno, una gerla intrecciata, una lampada costruita con materiali di fortuna: ogni oggetto racconta l’incontro tra la mente e le mani, tra l’urgenza di vivere e il desiderio di lasciare un segno.

E poi ci sono musei che, più di altri, custodiscono questa sensazione con un’intensità particolare.

Il Museo della Civiltà Solandra, in Val di Sole, è uno di questi.

Non è un museo monumentale, non impone la propria presenza: ti accoglie.

Appena varcata la soglia, senti di essere entrata in un luogo che non espone semplicemente oggetti, ma vite.

Le stanze raccontano il lavoro dei campi, le lunghe serate attorno al fuoco, la fatica e la pazienza dei gesti ripetuti.

Ogni ambiente è ricostruito con una cura che non vuole stupire, ma ricordare  come se la valle avesse deciso di tenere stretti i suoi fili per non lasciare che si spezzassero.

Tra tutti gli oggetti esposti, il telaio è forse quello che più cattura lo sguardo.

Non è solo una macchina: è un frammento di quotidianità, un piccolo universo fatto di legno levigato dal tempo, corde tirate, ferri che tintinnano ancora nella memoria.

Le sue dimensioni occupano quasi una stanza intera, come un ospite importante attorno al quale si organizzava la vita domestica. Avvicinandoti, puoi immaginare il rumore regolare della navetta che correva avanti e indietro, il ritmo paziente delle mani che guidavano i fili, l’odore della lana in inverno.

Ogni tessitura era un atto di cura: per tenere caldi i bambini, per preparare il corredo, per assicurarsi che nulla andasse sprecato.

Guardandolo, è impossibile non pensare che ogni tessuto uscito da quel telaio fosse, in fondo, una storia intrecciata, un filo che arriva fino a oggi.

E mentre scrivevo di questo museo, mi è venuta voglia di tornare anch’io a intrecciare un filo.

È nato così il piccolo progetto che pubblicherò su Accidentaccio: una mini ghirlanda in macramè, un oggetto semplice, ma capace di ricordarmi quanto il fare lento, il fare con intenzione  sia ancora oggi un modo per custodire storie.

Un nodo dopo l’altro, proprio come un tempo si intrecciavano trame e orditi.

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